Siamo destinati a diventare una società di solitudini connesse?
Parrebbe proprio di sì, anche se l’ultima parola sarà la storia a dirla. Quel che oggi possiamo tentare di fare è il disegnare alcuni possibili futuri scenari, verso i quali potrebbe portarci il corso degli eventi.
Il primo è quello nel quale gli strumenti di comunicazione prendono completamente il sopravvento e diventano capaci di simulare la realtà in modo talmente veritiero da illudere chiunque di possedere una, anzi molte vite nel ciberspazio, capaci di essere qualcosa di più di un simulacro e, grazie ai previsti miglioramenti della potenza computazionale dei calcolatori, di sostituire in tutto e per tutto la nostra vita relazionale.
E’ questo Il mondo rappresentato dal film a cartoni animati Wallie, nel quale gli uomini, tutti incredibilmente grassi e flaccidi, giacciono sdraiati su lettini semoventi, completamente assorbiti da uno schermo che sta loro dinnanzi.
Il secondo è quello di un riflusso, ovvero di un mondo talebano, nel quale le tecnologie di connessione, internet ed i social, sono messi al bando e nel quale gli uomini tornano a riconoscersi all’interno di piccole comunità .
Questo scenario è l’inevitabile, secondo alcuni sociologi, conseguenza della demografia dell’occidente, posto nel quale cresce solamente la popolazione immigrata, che finirà in proiezione, col diventare maggioranza, imponendo regole e costumi.
Che vinca la prima o la seconda ipotesi, o che capiti qualcosa di intermedio, non ci impedisce di vivere un presente tutt’altro che edificante.
Mi viene da chiedermi: l’essere connessi agli altri utilizzando un mediatore come internet, attraverso computer e telefonini, significa avere realmente rapporti con i nostri simili?
La domanda è retorica, basti pensare che oggi esistono bot in grado di discorrere con la gente in modo estremamente credibile, utilizzati tanto da catene commerciali in guisa di commessi virtuali, quanto da biechi personaggi come i propinatori della blue whale, e nelle grinfie dei quali rischiamo ogni giorno di cadere.
Pensare, comunque, che le relazioni con gli altri siano affidate alla connessione è, di fatto, disumanizzare i rapporti, togliendo loro l’essenza dell’incontro, del dialogo che utilizza non solo la parola ma molto altro per dire ciò che la parola non può o non sa dire.
In moltissimi ragazzini, al giorno d’oggi, hanno la sensazione di non essere soli, solamente perché sono connessi.
La realtà è che sono terribilmente soli, pur non avendone contezza; hanno genitori separati che vivono lontanissimi tra loro, situazioni famigliari drammatiche, non dialogano con i loro compagni di scuola, non hanno amici con i quali trovarsi a giocare, non hanno relazioni vere, nelle quali litigare fino a prendersi a pugni, per poi fare pace e tornare a giocare assieme al pallone.
Ma il fenomeno delle solitudini connesse, non riguarda solo i piccoli, e l’utilizzo patologico di certi social network è soprattutto un fenomeno che riguarda gli adulti.
Facebook, così come Second Life, sono utilizzati soprattutto dagli over 45, ed è ormai nota, anche al mondo accademico, la sindrome da Social Addiction.
Il rapporto mediato da sistemi di tipo elettronico è fasullo, incompleto, fatuo, e produce danni psicologici rilevantissimi.
Eppure c’è gente che perde la testa, si innamora perdutamente di una chat, gente che distrugge la propria famiglia per una chat, c’è persino gente che sceglie di suicidarsi per una chat.
Recentemente leggevo che, nel 75% delle cause di divorzio, viene a vario titolo citato Whatsapp.
Come dire, occhio ragazzi, stiamo per diventare pazzi.