Non mi interessa mettermi a contemplare la nostalgia dei tempi passati, mi interessa invece la constatazione che la società si stia trasformando in un conglomerato di persone sole, connesse in vario modo tra loro.
Ma il simulacro di rapporto umano che è la rete, che sono i social network, che sono quei maledetti aggeggi che ci ostiniamo a chiamare telefoni e che fanno di tutto, e forse servono anche per telefonare, non sono in grado, nemmeno lontanamente, di riprodurre la magia di un incontro tra persone.
Le connessioni sono la fatua finzione dei rapporti, la rappresentazione digitale di un reale che non esiste, perché mai e poi mai un apparecchio digitale potrà diventare una estensione dei nostri sensi.
L’illusione che creano è comunque fatale, e finisce per nascondere l’agghiacciante verità nella quale siamo immersi senza saperlo, che è la solitudine.
Così riusciamo a sopravvivere, ed è la prima volta nella storia umana, senza rapporti veri con gli altri, perché abbiamo dei simulacri vagamente credibili di quelli.
Prima di noi gli uomini, se venivano per qualunque motivo esiliati o allontanati dalla loro comunità, ce lo racconta bene Claude Levi Strauss nei resoconti dei suoi studi sulle tribù della Papuasia, nell’arco di 48 ore, prima ancora che di sete o di fame, morivano per disidentità.
Ma noi che siamo connessi non riusciamo a vivere il dramma della disintegrazione della nostra identità, dal momento che la gente non ci riconosce per strada ma sui social.
Non riconosce noi, ma la nostra immagine, il nostro simulacro digitale, nel quale anche noi finiamo per riconoscere noi stessi.
Di vita reale, vera, ne abbiamo una sola. Giorno dopo giorno costruiamo la nostra identità, che in gran parte è il modo con il quale gli altri ci riconoscono, e che poco per volta diventa a tutti gli effetti, quello che siamo.
L’illusione più pericolosa che la alternativa realtà cibernetica produce sulla nostra percezione, è l’illusione che si possa ripartire con una nuova vita, come in una partita ai videogiochi.
Non è che, sotto sotto, non ci si renda conto di quello che succede, ma riusciamo a mentire talmente bene a noi stessi da impedirci di soffiare via la nebbia nella quale siamo immersi.
La finzione cibernetica, unita alla naturale tendenza umana a non vedere i propri guai, riesce ad attutire una mancanza che, diversamente sarebbe mortifera.
Non è cosa che riguarda solamente le menti deboli, coinvolge tutti, ed è una sorta di cambiamento antropologico che stiamo vivendo.
Ci illudiamo che l’uomo non abbia bisogno degli altri, o peggio, che il rapporto con gli altri sia un gioco, e ci comportiamo come se il nostro prossimo, male che vada, possa essere cancellato con un click.
Tanto gli amici, quanto i nostri amori, che sono gli elementi più importanti della nostra sfera affettiva, diventano precari, e finiscono per non essere mai realmente autentici, pervasi da un egoismo di fondo, che è connaturato al mondo virtuale che, un po’ per volta, ci sta inghiottendo.
La società si trasforma in modo veloce e vorticoso, apparentemente eterodiretto, e difficilmente comprensibile. Fare una sintesi di quel che sta succedendo all’uomo ed al suo rapporto con la realtà, non è semplice nemmeno per i filosofi, figuriamoci per me, che sono e morirò ignorante, ma è comunque possibile leggere alcune tendenze, elementi che dominano la scena di questo cambiamento, che spaventano tanti, me compreso, e che determineranno l’uomo del futuro.
Sempre che di uomo si possa ancora parlare, visto che qualcuno sta iniziando a dire che Uomo, per significare umanità, non è un termine corretto perché esclude dal contesto le Donne.
Vadrum!