Tempo fa esistevano i cacciatori di autografi, oggi la tecnologia ha creato i cacciatori di selfie, e farli è molto più gratificante che riuscire a strappare una firma su un foglietto di carta.
Chissà se farsi un selfie con qualcuno di importante ha a che fare con il narcisismo, ma io non credo, ed anzi, sono convinto che sia più semplicemente un voler conservare certi momenti della propria vita, nei quali ci si è trovati fianco a fianco con personaggi importanti per noi e per gli altri.
Un selfie è un modo per stappare un pezzettino dell’anima a chi viene ritratto assieme a noi, senza però ferirlo. Secondo una visione che molti anni fa avevano gli aborigeni australiani, una fotografia ruba l’anima, e questa cosa mi ha sempre fatto pensare non già alla infantile visione del rapporto con il mondo e con la vita che avevano loro, bensì alla nostra relazione con l’anima, difficilissima da chiarire, impossibile da capire.
PAPÀ MARCELLO E L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA
Papà Marcello, ogni volta che mi vedeva assorto, mi chiedeva se stessi pensando alla immortalità dell’anima, come se quello fosse l’unico pensiero capace di portare lontano la mia mente, e di riflesso, anche la sua.
In realtà io da bambino prima, e da ragazzo poi, non mi sono mai trovato per davvero a pensare né alla mia anima né a quella altrui, almeno non nei termini nei quali lo faccio ora, dopo aver maturato una consapevolezza ed un desiderio di infinito che mi consente quanto meno di provare ad entrare con la mente nel mistero della vita.
Anni fa la mie esistenza era pervasa da una sorta di sensazione di immortalità , e penso che sia normale averla: da bambini non si pensa né alla morte né all’anima, si vive come se la propria vita non dovesse mai finire, protetti in un bozzolo di affetti solidi e purissimi, che poi ci portiamo dietro per tutta la vita, soprattutto nei confronti di nostra madre.
Poi le cose lentamente cambiano, fatemi dire purtroppo, quel bozzolo sublima poco per volta, e noi rimaniamo soli a dover cercare di dare un senso ed uno spessore ai nostri affetti.
Ci accorgiamo che la forza dei legami dipende sì da noi, ma anche dagli altri, e che amare e farsi amare non è facile.
L’AMORE NON È ISTINTIVO
In realtà l’amore non è qualcosa di istintivo, non ha a che fare con il batticuore e la passione che si sente, ogni tanto, come un fuoco che di divampa dentro, e che finisce presto confondendoci.
È ben altro, perché abbraccia il campo della responsabilità , della fedeltà alle scelte, della capacità di sopportare ciò che non ci piace.
Le prove alle quali ti sottopone l’amore sono davvero difficili da attraversare, richiedono tenacia e dedizione, e spesso diventa molto facile buttare dentro, sentirsi traditi e fuggire, imporsi di dimenticare.
Tanto più che la narrazione delle metastorie contemporanee, in primis pubblicità e fiction televisiva, ci pone nella condizione di poter bastare a noi stessi, e ci insegna a non aver bisogno degli altri.
FUGGIRE È PIÙ FACILE CHE RESTARE
Viviamo in un mondo nel quale è normale fuggire dall’amicizia, dal matrimonio, dai rapporti parentali, un mondo nel quale è normale la prevaricazione, un mondo nel quale il donare agli altri la propria vita non è nemmeno pensabile.
Un mondo nel quale non ci si guarda mai negli occhi, non si esplora la profondità degli sguardi altrui, che sono specchio della loro anima, un mondo nel quale noi stessi abbiamo vergogna a rivelare cosa abbiamo dentro, nella profondità remota del nostro cuore.
Viviamo come se avessimo sempre gli occhiali da sole, lenti scure che coprono il nostro sguardo, che impediscono agli altri di entrare nella nostra mente e leggere la nostra anima.
UN ATTIMO DI VITA
Resta il fatto che fare un selfie con qualcuno significa qualcosa di più che non strappargli un autografo. Come per gli aborigeni d’Australia, che non si facevano fotografare mai, perché pensavano che fosse come farsi strappare un pezzo di anima, così il farsi un selfie produce un effetto analogo anche per noi, poiché è la raffigurazione di un attimo di condivisione della propria esistenza con qualcun altro.
Un attimo nel quale, a voler ben guardare, dentro gli occhi di chi viene ritratto, c’è veramente l’infinito.
E bon!