Oggi mi sono vaccinato. Attendevo questo giorno con trepidazione, come se vaccinarsi avesse un significato ben più ampio di quello che è davvero, come se vaccinarmi mi rendesse davvero invincibile. Mi sento come può sentirsi un bambino al quale vengono regalati decine di elefanti da guerra da aggiungere all’esercito di Annibale: finalmente potremo conquistare Roma, potremo distruggere la città eterna, e cambiare la storia.
Decine di anziani in coda davanti ad una tensostruttura allestita all’arsenale militare proprio là dove la città rinascimentale aveva il principale baluardo difensivo: il Castello.
Io ero in mezzo a quel gerontocomio come se anche io fossi decrepito e fragile, come se anche per me la morte potesse facilmente averla vinta.
Lo stare silenziosamente in coda mi indiceva a riflettere sulla mia condizione: se mi avevano convocato, probabilmente era perché, per ragioni a me ignote, non ero poi così tanto ben messo, non ero affatto immortale, come viceversa tendevo a considerarmi, ma l’incalzare degli eventi non mi permetteva di rifletterci più di tanto.
Seguivo un percorso disegnato per terra a strisce rosse, e cercavo di rispettare la distanza di sicurezza dagli altri, indicata con dei pallini altrettanto rossi nel mezzo del camminamento.
Efficienza, puntualità, grande rigore facevano di quel momento qualcosa di marziale. Molti erano in sedia a rotelle, accompagnati da qualcuno, completamente incapaci persino di capire quello che una gentile e spiccia addetta alla coda diceva con tono autoritario e militaresco.
“Quelli delle 12,45 alzino la mano!”
E così io ed altri quatto o cinque ci siamo appalesati, timidamente, di fronte a chi stava organizzando l’ingresso nel grande capannone bianco.
“Preparate l’autocertificazione sul Covid, venite avanti!”
La fila fu sconvolta, mentre l’addetta controllava i documenti. Chi non li aveva compilati correttamente, ed io ero tra quelli, veniva invitato ad andare a correggerli su un tavolino che stava appena prima dell’ingresso, le biro legate alle quattro gambe del tavolo con nastri bianchi “scarbontiti” sembravano dei soldatini trattenuti a forza dall’impulso di disertare.
Mi immaginavo come la gran parte dei vecchietti in coda avesse avuto bisogno di aiuto per scaricare da Internet i moduli. Chissà chi li aveva aiutati. Figli? Nipoti?
Certo è che i loro accompagnatori non erano nè figli nè nipoti, tranne forse uno. Erano tutte badanti dell’est Europa, donne di mezz’età dell’Ucraina, della Moldavia o lì per lì, che chissà cosa realmente comprendevano delle parole che diceva loro l’addetta alla coda.
Fatto sta che alle 12,45 in punto, con una precisione da esercito svizzero, mi sono trovato davanti al banco dell’accettazione, documenti alla mano.
“Torre Stefano?”, “Sì”.
Un rapido controllo al registro delle prenotazioni, una sparaflessciata della pistola per il controllo della temperatura e mi ritrovo ad entrare in ampio capannone, con le aree tra loro separate da nastri bianchi e rossi di quelli che si usano per i lavori in corso.
Le diverse zone erano le tappe del percorso che mi avrebbe portato alla salvezza, che mi avrebbe donato l’immortalità, quella che Sarpedonte nell’Iliade dice essere cagion certa di codardia, ma chisenefrega! Voglio essere codardo, io non sono né Ettore né Achille, e nemmeno Patroclo! Preferisco l’immortalità, voglio la mia felicità.
L’area era costellata da seggiole, a distanza di sicurezza, ognuna al centro di un piccolo cerchio immaginario di un metro di raggio.
Pannelli elettronici indicavano il numero di chi veniva chiamato, quello stesso numero che stava sul cartellino che mi avevano dato all’accettazione.
Cerco di prendere posto più avanti che posso, perché i cartelli luminosi hanno numeri troppo piccoli per esser visi da lontano, il che, se produce problemi ad un highlander come me, immagino sia praticamente invisibile per gli altri.
Ed infatti una addetta stava in mezzo alle seggiole ed ogni volta che un numero nuovo veniva chiamato si preoccupava di trovare chi lo aveva e di mandarlo ad un secondo banco di accettazione.
Da lì si veniva portati davanti alla scrivania di un medico che esaminava le carte e poi, dopo aver ricevuto un altro numeretto, si entrava in una altra area con altre sedie, dove si ripeteva la scena di prima.
Pochi minuti ed arriva la chiamata. Varco la soglia segnata per terra col nastro adesivo, controllo sul tabellone quale sia lo stallo nel quale devo andare, lo trovo immediatamente ed entro.
La puntura non fa male, ed è più il tempo necessario allo scoprire il braccio di quello necessario alla inoculazione.
L’ultima cosa che mi tocca fare è il ritiro del certificato.
Vedo la Paola, è una delle infermiere addette ad iniettare il vaccino nelle braccia della gente, la chiamo, lei viene da me, accenniamo un abbraccio ma ci fermiamo in tempo rendendoci conto che avremmo rischiato l’arresto se avessimo compiuto quel gesto sovversivo.
Corro a casa felice e con tanti elefantini da aggiungere al mio esercito cartaginese in miniatura. Ora bisogna cambiare la storia e far finire le guerre puniche con la distruzione di Roma, magari cospargendo di sale le macerie.
Se la Caput Mundi verrà distrutta, allora non ci sarà più spazio per questo presente di solitudine e covid, di ansia e preoccupazione per il nulla che avanza e si afferma, saremo liberi di amare e farci amare.
Dicono che Scipione pianse nel vedere Cartagine bruciare poiché gli sembrava di aver intravisto Roma tra le fiamme.
Bene! È ora che la Visione di Scipio si compia!
E bon!