Prefazione all’Ultima Preghiera
l’impotenza collettiva di amore
Di Padre Nicola Albanesi, (teologo, Rettore del Collegio Alberoni)
Leggere poesie è una avventura dello spirito. esige attenzione, rispetto, disponibilità a lasciarsi condurre in zone non perfettamente conosciute, se non, addirittura ignote.
I testi Di Stefano Torre possiedono la qualità di catturare immediatamente l’attenzione del lettore. I versi sciolti in endecasillabi si snodano facilmente in un periodare breve e musicale. Hanno ritmo. Non ci sono pause. Il lettore deve arrivare alla fine e vuole arrivarci il prima possibile.
In questo movimento la scrittura prende il sopravvento, conquista lo spazio e invade il campo del lettore. L’immaginario interiore dell’autore si svela e si offre. Ma qui, la facilità di lettura prima vista, cede il passo alla difficoltà di comprensione piena.
Accidenti, Stefano, che vuoi dire? Perché quella citazione colta? Perché quel riferimento non ordinario? Dove sei?
“Ardua cosa è capire come funzionino i poeti”, disse un giorno Hannah Arendt a proposito di Bertold Brecht. Stefano non sfugge a questa regola. Non rimane allora che cimentarsi con i suoi scritti, unico medium per raggiungere la sua interiorità. Sì, perché di questo si tratta: della sua interiorità, che vuol farsi largo ed emergere in tutta la sua complessità, compresi i lati ambivalenti e contraddittori.
Stefano evoca uno scenario fallimentare: l’impotenza collettiva di amore. Nei mali dell’umanità si manifesta quella riserva di satanicità annunciata da Dostoevskij. La luce della fede però irrompe e squarcia l’orizzonte tetro. Il sognare altri mondi da popolare di nuovo, quasi per ricominciare daccapo, denuncia il desiderio di un’altra vita, quella del mondo nuovo che ci attende alla fine dei tempi.
C’è anche una nostalgia di valori promessi e conosciuti un tempo, nell’età dell’oro dell’infanzia, e un gran desiderio di ritrovarli nel futuro della piena maturità e compimento.
In mezzo c’è una lacerazione profonda, una spaccatura, una ferita aperta. È questo che rende i suoi scritti interessanti. L’esperienza che li segna è quella di una innocenza perduta.
Stefano invita il lettore a leggere le reazioni del suo io, una specie di geroglifico che rischia di rimanere inesprimibile se non viene detto attraverso i versi. Si apre allora tutto un mondo sotterraneo dove l’autore conduce il lettore a percorrere il labirinto delle sue passioni ed emozioni. Per usare una immagine cara ai romantici, Stefano ci mostra le due facce della stessa Luna. Alla faccia illuminata dal Sole, della vita ordinaria, della razionalità diurna, si aggiunge la faccia oscura della Luna, che è sempre la stessa, della trasgressione (superamento del limite), della perversione (corruzione), dell’abisso (fondo senza fondo) che è il proprio io.
L’ordine intellegibile delle cose si decompone, si sfalda lasciando erompere strane e spaventose figure, nuove terribili forze di gravità. Il mondo delle emozioni emerge in tutta la sua violenza e viene diretto dalla “razionalità notturna” che riplasma il vissuto, che combina gli elementi, gli eventi, gli agenti della vita cosciente secondo altre leggi e altre logiche. Qui c’è tutta una sensibilità che, attraverso la poesia, penetra e abita la contraddizione cercando di sciogliere l’enigma della propria esistenza.
Scrivere diventa allora un atto terapeutico e maieutico, un esercizio di attenzione alla scoperta della bellezza nascosta della vita. Scrivere è anzitutto questione di fedeltà assoluta verso sé stessi ed il proprio destino. E leggere significa scoprire un altro mondo.
Mir spastët krasota: la bellezza salverà la terra!
È su queste parole di Dostoevskij che Pasternak fonderà la sua poetica. In una famosa pagina del suo Dottor Zivago manifesta tutta quella fiducia illimitata nel potere che possiede la “bellezza” nel cambiare la vita dell’uomo.
“E voi credete che il mondo sarà salvato dalla bellezza, dal mistero e cose del genere? Aspettate - la risposta - ve lo dico io quello che penso. Penso che se la belva che dorme nell’uomo si potesse fermare con una minaccia, la minaccia della prigione o del castigo d’oltretomba, poco importa quale, l’emblema più alto dell’umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta e non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo, che, per secoli, non il bastone ma una musica ha posto l’uomo al di sopra della bestia e l’ha portato in alto: una musica, l’irresistibile forza della verità disarmata, il potere d’attrazione del suo esempio.”
Che la musica (la ricerca dei valori assoluti) e la realtà quotidiana non si oppongano è la scommessa su cui si gioca la fecondità di ogni ricerca umana.
Buona esplorazione!
P. Nicola Albanesi C.M.