E così Pietro Anastasi, in mitico centravanti della Nazionale e della Juve se ne è andato, a 71 anni, senza combattere.
Non so se parlare di autogoal sia corretto, certo è che per uno che di goal ne ha fatti tanti ci può stare senza che nessuno dica niente.
Si è fatto sedare, sedazione assistita la chiamano, e viene somministrata solo in prossimità della morte, come palliativo per lenire le ultime sofferenze.
Anastasi, con una lucidità che pare ben lontana da quella della fine della vita, ha salutato i suoi fan su Facebook ed ha posto fine alle sue sofferenze.
La SLA gli era stata diagnosticata nel 2017 e contro di essa aveva lottato con grande forza, pubblicando sui social le sue emozioni e le cure, e facendosi promotore di molte iniziative di beneficenza.
Aveva anche subito l'amputazione di una gamba.
Finché non ce l’ha fatta più e ha deciso di pubblicare un ultimo post che aveva destato grande commozione: "Ho deciso di trascorrere le feste lontano dai social ma accanto alle persone per me più importanti. Però, ora che le feste sono finite, ed insieme a loro anche l'ultimo granello di forza che mi restava, ho deciso che non posso continuare a far prevalere il dolore fisico e la sofferenza su ciò che il destino ha in serbo per me".
Infine l'annuncio: "Da domani sarò sedato e potrò alleviare il mio malessere”.
(fonte Famiglia Cristiana ... qui si impone un errata corrige: le parole attribuite ad Anastasi sono in realtà di Giovanni Custodero, che, a 27 anni, affetto da sarcoma osseo, ed avvezzo all’uso dei social, ha lasciato i propri tifosi con le parole succitate)
Quello che io non so è quanto grande fosse il dolore che doveva sopportare, quello che non posso fare è calarmi in lui per giudicarlo, ma quello che posso fare è parlare di me stesso tentando di calarmi in un dramma che non auguro a nessuno.
Come reagirei io se qualcuno dei miei familiari mi dicesse di aver preso una simile decisione? Cosa farei io se mi trovassi di fronte ad una malattia che mi lascia comunque pochi mesi di vita e mi fa soffrire le pene dell’inferno?
Ciò che da sempre vado dicendo, raccontando della mia vita, è che il senso dell’esistenza sia la vita stessa, troppo bella per essere interrotta volontariamente con un suicidio.
Ma qui non siamo di fronte ad un suicidio, non siamo nel caso del dJ Fabo che emigra in Svizzera per ingerire un cocktail di farmaci, qui si è nel pieno rispetto della normativa italiana, che non contempla affatto il suicidio assistito.
Qui siamo di fronte ad una scelta legata alla fine della propria vita, comunque già segnata e già certa, una scelta che anticipa di qualche mese, forse addirittura di qualche giorno soltanto, l’inevitabile esito tragico.
Il dover morire molto presto è già stato metabolizzato, tanto da chi decide, quanto dai propri famigliari, e l’addio, l’ultimo addio, tanto vale che avvenga in modo consapevole. O no?
Niente più di questo interrogativo rientra tra le verità relative, niente è più amletico del porsi una domanda del genere, e qualunque sia la risposta, altissime siano le probabilità che al dunque non la si rispetti.
Ad ogni buon conto io, oggi, mai e poi mai avrei deciso di farmi sedare. Ho troppo rispetto per la vita da pensare di rinunciare anche ad un solo attimo, un solo sospiro, un solo pensiero.
Poi mi direte che fumare, come io faccio, significa rinunciare a priori ad attimi di vita, e so che avete ragione.
Fa parte della incapacità umana di essere coerenti con se stessi, ed è l’impossibilità di azzerare la distanza tra se e la propria vita, tra se e la verità.
Mario Luzzi, parlando di Rambaud, afferma che lo scrittore francese sia riuscito quasi a colmare la fenditure tra la parola e la verità.
Una fenditura che esiste sempre e comunque, una distanza inesorabile tra la parola scritta ed il pensiero, tra quello che accade e quello che dovrebbe accadere.
Quindi accontentatevi del fatto che io pensi che mai e poi mai mi sostituirò a dio nel decidere cosa fare della mia vita, e perdonatemi se poi farò il contrario, finendo per farmi autogal nella mio piccola porta del Subbuteo, o forse, semplicemente sbagliare un rigore a punta di dito.