Forse è bene fare una pausa per pensare, una pausa da dedicare alla meditazione. Iniziare un percorso di realismo terminale, nelle mie condizioni, è impresa veramente improba, perché l’oggi impone, quasi fosse di moda, di avere un ex marito o una ex moglie, ed io vesto male i panni di colui che accetta di avere una ex moglie. Insomma, sto vivendo in modo drammatico, quasi tragico, l’essere diventato un ex marito.
Ma al di là di avere parecchi dubbi sul fatto che i nipoti di mia moglie siano ancora miei nipoti, o se non sia che siano diventati ex nipoti, ed i cugini idem, ex cugini, credo che si possa utilizzare il realismo terminale anche in una maniera non alla moda.
Il fatto è che il realismo terminale, per come lo ha concepito Guido Oldani, e per come lo hanno elaborato anche altri pensatori, è completamente privo di un giudizio sul tempo che racconta. Semplicemente prende atto del distacco tra uomo e natura, e lo spinge fino al constatare l’allontanamento tra uomo e natura umana.
L’andare oltre la constatazione è ciò che i poeti o i pensatori, o gli artisti, aggiungono al mondo nuovo nel quale oggetto e soggetto sono invertiti ab origine.
Se, quindi, una separazione coniugale, per quanto malcondotta e lacerante sia, resta una delle tante, l’espressione di un giudizio, usando le metafore proprie del realismo terminale, diventa possibile.
Più che un giudizio morale, il mio desiderio è quello di narrare un dramma, ed in esso scoprire che c’è poesia dentro la disperazione.
Mi hai dimenticato, come un ombrello al bar
Sono i due versi di rara intensità emotiva, che una anonima assistente di non so quale materia all’accademia di belle arti di Brera, ha regalato ad Oldani, e che lui ha riproposto in un discorso al Piccolo Museo della Poesia di Piacenza.
Due versi che hanno dentro tutta la mia vita.