lunedì 11 novembre 2024
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L’incredibile vita dell’uomo bionico Stefano Torre: «La mia patologia è rara»

Thomas Trenchi è molto più che un giornalista: è una giovane grande uomo destinato a grandi cose

L’incredibile vita dell’uomo bionico Stefano Torre: «La mia patologia è rara»
L’umorismo non gli manca neanche quando parla della rarissima patologia che lo ha colpito da bambino. Per curarla, i medici hanno dovuto impiantargli due computer nel corpo: «Toccami il petto, senti, sono metallico». Perciò, il cinquantaduenne Stefano Torre, web designer professionista e reduce da un’eclettica campagna elettorale a Piacenza all’insegna della satira, si fa chiamare “uomo bionico”. 

Sorride e scherza, lo fa sempre: l’umorismo è un’arma potente, che a Torre certamente non manca. Ma non nasconde un po’ di dolore nel ripercorrere i suoi terribili trascorsi tra sale operatorie e reparti di neurologia: «Non è facile parlarne. Ho imparato che, tanto più la vita ti nega qualcosa e ti mette i bastoni tra le ruote, quanto più riesci a scoprire la bellezza dell’esistenza». Sembra una frase banale, ma non è così: a pronunciarla è un uomo che all’età di otto anni, quando è un bambino vivace, pieno di amici, intelligente e bravo a scuola, all’improvviso non riesce più a scrivere, fatica a tenere in mano la biro, si trova intrappolato nel proprio corpo, perdendo progressivamente il controllo dei movimenti, senza che i dottori sappiano diagnosticarli la malattia. Solo quarant’anni dopo, Stefano Torre scoprirà di cosa si tratta: una distonia degenerativa, chiamata distonia DYT1, che conta all’incirca un migliaio di casi in tutto il mondo.

«Frequentavo la scuola elementare Giordani, ma a un certo punto non riuscivo addirittura a tracciare le righe sul foglio, la mia mano era incontrollabile. Siccome ai tempi la medicina non riusciva neanche a contemplare da lontano quale fosse la causa, i neurologi dissero ai miei genitori che il mio fosse un atteggiamento per attirare l’attenzione. E la cura fu scandita da ceffoni e punizioni». Stefano Torre, così, accetta di raccontarci la sua esperienza. Non lo fa spesso. Ci incontriamo seduti in un bar di via Scalabrini. Non indossa il cappello col cilindro, quella tuba in testa che è diventata il simbolo della sua campagna per la corsa a sindaco, basata su proposte surreali e folli, per sottolineare – a modo suo – le menzogne dei partiti. Per chi lo ha conosciuto solo in periodo elettorale, a tratti si fa inimmaginabilmente serio. Ammette che «è una storia da raccontare», di speranza e forza. Ed è giusto narrarla fuori dalla campagna elettorale, svincolata dalle facili strumentalizzazioni che la politica si porta dietro.

Inizialmente, quindi, il peggioramento scolastico del giovanissimo Torre – dovuto in realtà alla distonia – viene confuso con un vizio caratteriale. I suoi genitori si convincono che la questione deve essere approfondita, soprattutto perché il disturbo s’aggrava anno dopo anno. Nulla da fare, il responso è sempre il solito: non si tratterebbe di alcuna malattia, ma la motivazione sarebbe da ricercare in un rapporto burrascoso con la famiglia o negli sbalzi adolescenziali. Attorno ai diciassette anni, con la patologia che sta prendendo il sopravvento, Torre dà ulteriore adito di credere che il suo disturbo sia prettamente emozionale, infatti subisce uno stress non indifferente: viene espulso dal Liceo scientifico e gli specialisti concentrano ogni possibile origine delle sue complicanze in questo avvenimento. La malattia peggiora: Torre non riesce più a camminare in avanti, ma solo all’indietro o a correre. Per la maggior parte dei neurologi è qualcosa di incomprensibile, tuttavia i meccanismi motori sono scollegati tra loro e i “malfunzionamenti” nel suo cervello non gli permettono né di governare a pieno i suoi arti né di compiere determinate azioni. Perde anche il controllo della mano destra e decide, attraverso un percorso drastico, per spirito di sopravvivenza, di diventare mancino: per farlo, comincia a tirare di scherma con la mano sinistra, «prendendo tante legnate e botte da orbi», ricorda con un sorriso. Le visite proseguono invano: tutta la colpa viene scaricata sull’espulsione scolastica, una delusione che secondo i dottori Torre non avrebbe digerito.

All’età di vent’anni Torre, forse, potrebbe intravedere la luce. Viene ricoverato all’istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, dove è gia in corso da tempo una sperimentazione sul suo tipo di distonia (che lui non sa ancora di avere). Nonostante ciò, però, la patologia non viene riconosciuta: dopo un mese viene rilasciato senza nessuna diagnosi. «È incredibile – racconta Torre – perché proprio nello stesso anno venne ricoverato un ragazzo della mia età, al quale invece venne riconosciuta la distonia DTY1. Mi è giunta voce che, questa persona, sia poi arrivata a giocare a calcio in Nazionale, ma non ho mai scoperto la sua identità…». A Milano gli esami che gli vengono sottoposti non sono indolori, anzi, decisamente pesanti da sopportare: «Mi piantavano degli aghi nella mano e nel braccio, facendovi passare la corrente elettrica». Torre non ne può più: «Decisi di smetterla, mi sarei tenuto la malattia che avevo, senza ancora sapere cosa fosse. Mi sentivo una cavia da laboratorio, ero totalmente sfiduciato. Ero frustrato dall’idea di dover fare altri esami e controlli, che inoltre rappresentavano un costo economico importante per i miei genitori. Smisi totalmente di andare alla ricerca di una diagnosi. Anche se, mio malgrado, i sintomi si aggravavano, ogni movimento era sempre più complicato».

Per vent’anni Torre convive con il disturbo, finché sua moglie insiste poiché torni di fronte a un medico. Poco speranzoso e privo di qualsiasi aspettativa, Torre si reca presso un ambulatorio pubblico. «Mi accolse un medico della mutua, dicendomi che era il suo primo giorno di lavoro. In cinque minuti mi diagnosticò quella che effettivamente è la mia malattia, cioè la distonia DTY1. Ricordo ancora il suo nome, dottor Terlizzi», spiega Torre, con evidente senso di gratitudine. L’ospedale di Piacenza, una volta individuata la distonia, manda all’estero i campioni del suo sangue per un’indagine genetica. La diagnosi è confermata. I dottori gli delineano il quadro completo dell’operazione che può affrontare: prevede l’inserimento nel cervello di due elettrodi in profondità, collegati a due computer installati nel petto, «sperando in un corretto funzionamento», afferma Torre, sottolineando che «mi dissero di non aver mai fatto un intervento del genere su una persona così anziana. Era la prima volta che mi davano dell’anziano e avevo quarantasette anni. Ad ogni modo, l’idea di farmi aprire il cranio mi spaventava da morire». Prova ancora paura a parlarne, lo conferma lui stesso: «Ci pensai per due anni, non riuscivo più a dormire». Nel frattempo, i suoi figli compiono quattordici e otto anni. 

Il percorso massimo che Torre compie a piedi è dalla macchina alla porta dell’ufficio o di casa: «Neppure guidare la macchina era facile, perché non riuscivo a premere adeguatamente la frizione. Ero arrivato a conservare l’uso di tre dita che mi consentivano di schiacciare i tasti della tastiera del computer, per il resto ero obbligato a vivere con il braccio schiacciato dietro la schiena e le gambe incrociate. Decisi che bisognava andare sotto i ferri, occorreva fare quell’intervento». Torre parte per Milano, con la volontà di compiere l’operazione e limitare i danni che la distonia gli sta causando: «Il primo impatto fu traumatizzante. Nella saletta d’attesa si presentò un paziente con il cranio rasato e il segno di un taglio al cervello che urlava contro i presenti». Il giorno prima dell’intervento, Torre viene convocato dal chirurgo: «Mi domandò se avessi fatto il testamento, consigliandomi di farne uno olografo la sera stessa». Non il migliore degli incoraggiamenti, insomma. «Ovviamente non lo scrissi, sono scaramantico! Il rischio principale non era tanto la morte, quanto la possibilità di rimanere in stato vegetativo: introducendo gli elettrodi nella testa, infatti, qualche vaso sanguigno avrebbe potuto lesionarsi. La percentuale di fallimento era del 3 o 4%».

Dopo le scarsamente entusiasmanti premesse, arriva il momento tanto (dis)atteso: Torre si affida al bisturi, però si rivela un flop. «Era agghiacciante sentire il suono delle viti che mi impiantavano nel cranio, una sensazione quasi macabra e – per certi versi – esaltante. Durò cinque ore, senza anestesia totale perché serviva che fossi sveglio e che reagissi agli stimoli. Il chirurgo, ogni volta che agiva sul mio cervello, gridava agli infermieri “Tutti fuori”, invitandoli ad abbandonare la sala. Era una vera e propria mandria, almeno venti camici attorno a me. Entrò il primario e, arrabbiandosi, disse al chirurgo che “Tutti fuori” portava sfortuna; doveva piuttosto dare questo ordine in lingua inglese. Così intervenni io, sconcertato da questo siparietto, proponendo un “Föra da i ball”. Disgraziatamente, sbagliarono a centrare la zona del cervello nella quale avrebbero dovuto inserire gli elettrodi. Mi venne un ictus». L’ictus improvviso, però, si trasforma in qualcosa di apparentemente positivo: «Per un’intera settimana, inspiegabilmente, ero guarito: riuscivo a muovermi, nonostante l’operazione fosse fallita. Quando si riassorbì l’ictus, tornò la distonia. Era un caso fortuito, che aveva portato a una guarigione temporanea». Passa una settimana, Torre torna sotto i ferri per la seconda operazione. Stavolta, i medici fanno centro, gli elettrodi vengono collocati correttamente. Ma un’altra brutta notizia bussa alla sua porta: «Era stata una fatica bestiale, dolorosa, ero impaziente di vederne i frutti, di tornare a camminare e scrivere liberamente. Eppure, mi dissero che avrebbero attivato il computer nel mio petto solo tra due mesi. E pensare che sognavo di tornare da Milano a Piacenza a piedi…». Torre ricomincia a desiderare, riflettendo su tutti quegli aspetti della vita che ha dovuto accantonare: «Con la malattia avevo messo in atto quel meccanismo difensivo psicologico che consisteva nel non ambire più a ciò che non potevo fare, per esempio mettendo da parte la passione per il calcio e trasformandola in quella per il subbuteo. In seguito ad ulteriori deterioramenti della mia salute, fui costretto a riporre nell’armadio anche il tappeto verde e i calciatori in miniatura, con enorme rammarico». La verità è che il sistema informatico piantato nel corpo di Torre (che dovrebbe tornare a fargli controllare gli arti) è acceso, ma ha un percorso di funzionamento lento e graduale; i medici non vogliono che si demoralizzi, così gli dicono che entrerà in funzione entro sessanta giorni.

«Dopo tre o quattro mesi ho cominciato a camminare per davvero, prima faticando come un matto, poi più facilmente. Ho girato la città in lungo e in largo, ho scaricato un’app per dimostrare ai parenti i percorsi che facevo. A casa erano gasatissimi! In più vedevo amplificarsi le mie capacità cognitive perché liberavo aree mentali: ero diventato una calcolatrice vivente, riconoscevo le facce dei passanti con una facilità mai successa prima. Adesso questo effetto di “super-potenza” è terminato e ho ancora qualche difficoltà a parlare, talvolta molto evidente». È una storia di alti e bassi, che Stefano Torre intervalla con parentesi paradossali e divertenti. Forse, anche per sdrammatizzare un capitolo di vita che, inevitabilmente, gli ha lasciato una cicatrice profonda e tangibile, ma arricchente: «Ogni cosa di cui mi sono privato a causa dei miei limiti fisici, una volta guarito, me la sono ripresa con più forza e gioia». Oggi vive con due computer a pile piantati nel petto che rischiano di scaricarsi ogni quattro o cinque anni (guai a farsi mancare qualcosa: tempo fa è capitato) e ogni tanto perde il controllo delle gambe, ma non si lamenta, anzi, è finalmente realizzato: «Negli ultimi anni di isolamento crescente, mi ha infastidito la sensazione di non poter partecipare in maniera attiva all’evoluzione del mondo, anche da lì pertanto è nata la mia idea di mettermi in gioco nella campagna elettorale di Piacenza in maniera così forte e stravagante, con una dose di “faccia di bronzo” che non so se avrei avuto senza essere passato attraverso una simile storia personale».
Thomas Trenchi per Sportello Quotidiano


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