lunedì 17 novembre 2025
  • » Punti di Vista
  • » Il Game pandemico, da Space Invaders al Super Green Pass

Il Game pandemico, da Space Invaders al Super Green Pass

commento all'intervento di Claudio Orlandi e pubblicato su fissando il volto in gelo

Il Game pandemico, da Space Invaders al Super Green Pass

Ringrazio Claudio Orlandi per l’intervento pubblicato su fissandoinvoltoilgelo.it e intitolato Il Il Game pandemico, da Space Invaders al Super Green Pass.

È una riflessione lucida, provocatoria, penetrante ed estremamente vera sul modo in cui la gestione dell’emergenza sanitaria sia stata strutturata secondo logiche ludiche, ispirate non tanto alla tradizione etica o democratica, ma alla gamification delle esistenze. Per far ciò Orlandi parte da “The Game”, libro scritto da Alessandro Baricco nel 2018, in, cioè, epoca pre-pandemica.

Non avevo mai, lo confesso, analizzato la realtà con la chiave che Orlandi ha offerto, e devo dire che riesce ad illuminare una enormità di questioni che, diversamente, rimarrebbero in penombra.

Il punto centrale, che merita una lettura filosofica e teologica approfondita, è il seguente: la pandemia è stata gestita come un videogioco o, meglio ancora, è stata narrata e imposta alla popolazione secondo la grammatica mentale del videogioco.

La riflessione profetica di Baricco, che Orlandi riprende con acume, descrive un mondo in cui il videogioco è diventato il paradigma percettivo dominante. Il mondo viene disegnato per essere giocabile: regole semplici, punteggio chiaro, feedback immediato, ostacoli progressivi, ricompense visibili. Ma a ben vedere, questa è la struttura di un universo disincantato, dove non c’è più il Mistero, non c’è attesa, non c’è salvezza, non c’è grazia: c’è solo un obiettivo alla volta, una sfida per volta, una schermata per volta.

La cultura del gioco che Baricco individua, e che Orlandi applica al contesto pandemico, non è solo una strategia comunicativa o una modalità narrativa: è un’antropologia, un’idea implicita dell’uomo.

Da cristiano, profondamente attratto dall'idea di Dio, non posso far altro che constatare che si tratta di una visione che raffigura (o sostanzia) l’uomo come giocatore, non come pellegrino. L’uomo come avatar, non come figlio di Dio.

In una società così strutturata, la sofferenza non è più un mistero da attraversare, ma un ostacolo da neutralizzare, da saltare con una buona dose di antidolorifico o con un QR code. Non si soffre più: si perde una vita e si ricomincia. Non si piange: si cambia livello.

Questa è una società perfetta per un mondo che ha smesso di credere in Dio, dove non si prega più, ma si aggiorna il sistema operativo. Una società che ha sostituito la Trinità con l’algoritmo, e la liturgia con il protocollo.

Una società che ha scelto il nichilismo, l’escatologia del nulla, del vuoto, dell’assenza, configurato all’interno di un gioco, ovvero di una similitudine dell’esistenza e non la realtà. Una struttura che ha ridotto la nostra libertà a seguire le regole della programmazione per oggetti, con scelte sempre obbligate, rinunciando al libero arbitrio.

Il gioco, ci ricorda Orlandi, non è mai stato davvero libero. È stato, semmai, un apparato: un sistema di controllo. Il Green Pass, i tamponi, i tracciamenti, le zone colorate: tutti strumenti apparentemente “funzionali”, ma che hanno avuto anche un forte potere di disciplinamento. Chi aderiva alle regole del gioco poteva “accedere ai livelli successivi”, chi non lo faceva era escluso, penalizzato, umiliato. La narrazione era quella del gioco, ma la sostanza era biopolitica, governamentale, illiberale.

Si potrebbe dire, parafrasando Orwell, che il gioco pandemico è stato “il volto della tirannide sorridente”. Una maschera colorata e ludica indossata da una forma di potere che non voleva il bene del popolo, ma la sua docilità. Altro che libertà di giocare: non si poteva nemmeno spegnere la console. Chi diceva “io non gioco”, veniva escluso, colpevolizzato, talvolta perseguitato. Altro che videogame: sembrava più un Panopticon, quindi un carcere, con effetti grafici gradevoli.

Eppure, dietro l’illusione della partecipazione si nascondeva la perdita di ogni vera libertà. E qui emerge con forza la riflessione antica di Sarpedonte, il guerriero dell’Iliade, che arringa i suoi compagni d’armi dicendo: «Se sapessi che siete immortali, non vi chiederei di entrare in battaglia. Ma poiché siete mortali e potete morire ogni giorno, allora vi dico: gettatevi nella mischia e traete gloria dal vostro coraggio». In queste parole si cela una verità inaggirabile: è proprio la consapevolezza della morte che giustifica il rischio, l’impegno, la vita piena.

Ma nel “Game” questa verità viene sistematicamente negata. Tutto viene edulcorato, resettato, reso reversibile. La morte? Un bug di sistema, un errore di codice, un evento da eludere più che da affrontare. Si crede di poterla aggirare con la tecnologia, con la sanità totale, con il controllo assoluto. Ma nessuna patch ci salverà dall’essere mortali. E se invece pensassimo di essere diventati immortali, non per fede, ma per protocollo, allora la nostra codardia sarà più grande ancora, perché non avremo più niente da rischiare e tutto da temere.

Viviamo nell’illusione di un oltreumanesimo da supermercato, dove si presume che la morte possa essere sospesa, rimandata, aggirata, come se fosse un problema tecnico da risolvere con un aggiornamento software o un nuovo dispositivo medico. Come se il semplice accumulo di dati sulla nostra salute, un QR code, una terapia genica, potessero farci dimenticare che siamo esseri mortali.

Anche io, del resto, quando mi candidai sindaco a Piacenza nel 2017, proposi nel mio programma l’abolizione della morte in città per decreto sindacale. E già che c’ero, promuovevo la distribuzione gratuita del Viagra ai vecchietti che avrebbero vissuto più di mille anni e avevano tutto il diritto di continuare a divertirsi. Una campagna elettorale grottesca, certo, fatta apposta per sbeffeggiare la politica e il suo modo surreale di accattivarsi il voto con promesse tanto roboanti quanto irrealizzabili, talmente assurde da diventare plausibili nel mondo del Game.

Ma l’immortalità non ce la garantisce nessuno. La morte continua ad aleggiare come un’ombra silenziosa su ogni nostra decisione. È la verità più semplice e insieme più negata del nostro tempo. E allora, dovremmo chiederci: che cosa siamo diventati? I compagni d’arme di Sarpedonte o semplici avatar confusi in un videogioco senza fine?

Se fossimo davvero immortali, allora sì che la prudenza sarebbe sacrosanta. Ma proprio perché non lo siamo, perché siamo destinati a morire, la scelta non può essere quella della paralisi. È nella consapevolezza della morte che nasce la possibilità della verità, della libertà, del sacrificio e anche della fede.

Ed è qui che si chiude il cerchio del “game pandemico”: in una società che ha smarrito il senso del sacro, dove la morte non ha più statuto di realtà, dove tutto si gioca come in un videogame – rapido, semplificato, misurabile in punti. Ma la vita vera non è un gioco, e non c’è reset possibile.

Ecco perché dovremmo chiederci: cosa siamo diventati? Siamo ancora i compagni d’armi di Sarpedonte, pronti ad affrontare la battaglia perché consapevoli della nostra finitudine? O siamo invece una civiltà che ha smarrito la verità, che non sa più distinguere tra la maschera e il volto, tra il gioco e la vita?

Cristo diceva: «Io sono la via, la verità e la vita». Ma forse noi, nel nostro delirio tecno-sacrale, crediamo di essere diventati noi stessi il Cristo, l’origine della verità, i padroni della vita, gli architetti del mondo.

La domanda che Orlandi pone è dunque una di quelle che fanno tremare le vene ai polsi. Viviamo ancora nella realtà o siamo sospesi in un’illusione globale, un gigantesco videogame costruito per mantenerci passivi, docili e ben nutriti?

E allora, la vera domanda — non filosofica, ma esistenziale, spirituale, ultima — è questa:

Viviamo in un mondo che ha scelto la struttura del videogioco per semplificare la complessità in assenza di Dio, o siamo entrati in un nuovo regime dove l’estetica del gioco maschera una tirannide opaca, disumana e cinicamente funzionale?

Una risposta non è obbligatoria. Ma il solo fatto di porsi la domanda potrebbe essere il primo atto di libertà vera in un tempo di schermi onnipresenti e sorrisi algoritmici.

E Bon!

qui il link all'articolo di Claudio Orlandi


Visualizzazioni: 206
© Tutti i diritti sono riservati
powered by Infonet Srl Piacenza
Privacy Policy
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.
Maggiori informazioniOK
- A +